Poi lei andò
da sola, e dunque arrivò[1] sotto
l’albero piantato a Pucbal Chah.
«Wow![2] Come
sono i frutti di questo albero? Dovrei morire, dovrei dannarmi solo per
tagliarne uno?»[3]
disse dunque la fanciulla.
Allora parlò
il teschio[4] che era
lì nell’albero di mezzo:
«Li desideri
veramente? Sono solo ossa queste cose rotonde poste sui rami dell’albero!»,
disse il teschio di Hun – Hunahpú parlando alla fanciulla.
«Tu non li
desideri!» disse a lei.
«Li
desidero!» disse dunque la fanciulla.
«Okay,
allora tendi verso di me la tua mano destra, voglio vederla» disse il teschio.
«Benissimo!»
rispose la fanciulla.
Lei protese
la mano destra verso l’alto, verso la faccia del teschio. Il teschio così le
soffiò.[5] Il
soffio cadde sulla mano della fanciulla. Poi lei guardò nella sua mano, subito
la vide. Non c’era la saliva del teschio
nella sua mano.
«Semplicemente
quello era il segno che io ti ho dato, il mio soffio. La mia testa non
funziona, rimangono solo ossa che non possono fare ciò che fa la carne.
Semplicemente
è come la testa di un gran signore, solo la carne funziona. Senza morirà e le
persone si spaventeranno nel vedere le sue ossa. Perciò rimane solo suo figlio,
che è un pó come il suo soffio, il suo sputo, la sua essenza. Se il figlio di
un signore, se è il figlio di un saggio, signore del linguaggio, non sarà
perso, lui continuerà, lui renderà tutto completo.
Non spegne,
non rovina la faccia del signore, del guerriero, del saggio, del signore del
linguaggio. Semplicemente questi rivivono nelle loro figlie e nei loro figli.
Così sia,
come ho fatto con te, va’ là sulla faccia della terra, non morirai. Entrerai
nella storia. Così sarà», disse il teschio di Hun – Hunahpú e Uucub – Hunahpú. Semplicemente
erano gli stessi i loro pensieri[6] quando
fu fatto. Così parlarono Haracán, Chípi Caculhá, Raxá Caculhá.
[1] Anziché xopón, arrivò, nel testo
c’è scritto xapon.
[2] Testualmente
hiá, termine senza traduzione. Si
tratta del suono fatto quando si è stupiti, simile all’italiano ah! oppure all’esclamazione wow!.
[3] Nella traduzione di Ugo
Stornaiolo si legge «questi frutti non dovrebbero marcire. Potrei prenderne
uno?». Recinos invece traduce come qui «dovrei morire, dovrei dannarmi solo per
tagliarne uno?».
[4] Il testo riporta bak, osso,
anziché holom, teschio o testa. È però
ovvio che si tratta del cranio di Hun – Hunahpú.
[5] Nella mitologia azteca il
“soffio della vita” è ciò che tiene in vita il Sole e l’universo. Fu il “soffio
della vita” a mettere in cinta la fanciulla e a dare vita ai mitici Hunahpú e Ixbalânqué.
[6] Nel testo si legge xaui quinaoh, cioè stessi loro pensieri; Ugo Stornaiolo traduce erano una sola mente. Anche se la testa è di Hun – Hunahpú anche
Uucub – Hunahpú pensa con quel cervello.
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